Siamo due pensionati, insieme impegnati da anni nel Camping CIG di Piombino: uno, pensionato recente delle acciaierie; l’altro, stagionato, del pubblico impiego. Firmammo subito con convinzione l’appello per salvare l’Afo 4, cattedrale laica del lavoro e dell’industria, in cui Francini ha anche lavorato, così come negli anni avevamo condiviso l’analoga proposta del professor Tognarini. Ma l’Afo è venuto giù. Non lo abbiamo salvato, almeno proviamo a dirci qualche verità, per quanto amara: l’Afo viene giù perché, da tempo, è venuto giù Piombino.
I vari governi nazionali, regionali e locali, in tutti questi anni, si sono limitati a consegnare Piombino in pasto alle multinazionali. Come risposta, i lavoratori e i cittadini (non tutti, ma quasi) hanno scelto di cancellare la propria storia, arrivando a vergognarsi di sè stessi.
La rimozione del passato ha contribuito all’accettazione passiva del presente. Per primi l’hanno fatto i lavoratori, con i sindacati maggioritari in testa. Tutte le narrazioni felici su Mordashov, Kaled, Rebrab, Jindal, sono state vissute come l’avvento della buona novella. Senza lotte capaci di far diventare Piombino un caso nazionale, senza una visione alternativa né un progetto per il territorio, siamo diventati complici della nostra sorte disgraziata: 1500 lavoratori dell’indotto falcidiati nell’indifferenza generale, centinaia e centinaia di lavoratori in cig da anni e il 30% del salario tagliato per tutti dal permanente accordo con Rebrab. I lavoratori sempre più divisi nella classica guerra tra poveri, rassegnati e inerti. L’ultimo loro errore fatale è stato quello di isolarsi dalla città, non partecipando mai collettivamente alle lotte che sono nate nella comunità, fra i giovani, le donne, i nuovi piombinesi: contro la discarica, contro il rigassificatore, per l’ospedale e la sanità pubblica.
I pochi che lavorano (a singhiozzo, con lo stipendio falcidiato) barricati a testa bassa dentro le mura della fabbrica; gli altri, dispersi nella individuale lotta quotidiana per sopravvivere in solitudine ad un decennio di cig, con reddito e futura pensione ridotti. Difficile mandare i figli all’università. La rimozione del passato, a partire dalle grandi lotte che hanno contrassegnato la vita delle acciaierie di Piombino, è arrivata a tal punto che la campagna per salvare l’Afo 4 non è certo partita né da lavoratori, né da sindacati.
E adesso siamo di nuovo a sperare nel messia con i nuovi presunti investitori. Ma, se non verrà cacciato Jindal; se non vi sarà un piano industriale serio, da valutare in un percorso partecipativo pubblico; se non saranno poste penali ferree in caso di inadempienze, e soprattutto se nella proprietà dello stabilimento non entrerà lo Stato, a comandare in forza di un piano della siderurgia che tenga insieme Taranto e Piombino, le nostre acciaierie saranno ancora cibo per le multinazionali, da masticare in fretta e forse vomitare ancora una volta.
Come i lavoratori, anche la città ha voluto cancellare la propria storia. Nel corso degli ultimi anni, da molti – figli e nipoti di operai, i quali a figli e nipoti hanno distribuito salari e liquidazioni -, la fabbrica è stata vista come un tumore da estirpare al più presto; i cassaintegrati come le metastasi che dissanguano la comunità.
Chi parlava di fabbrica perdeva voti, consensi e prestigio sociale. I pochi che hanno continuato a farlo, lottando per una moderna fabbrica ecocompatibile, lontana dalla città, sono stati descritti come vetero industrialisti, del tutto anacronistici. Poveri di spirito e di intelletto: descritti così, anche quando hanno proposto mille e mille volte di unire la comunità per elaborare un piano di rinascita del territorio, e lanciare una mobilitazione per costringere lo Stato a intervenire con le risorse necessarie. Così è arrivato il rifiuto tanto silenzioso quanto netto, da parte di sindacati, comitati, quasi tutte le forze politiche e anche mondo intellettuale, di mettere insieme in una mobilitazione unificante le lotte per l’acciaio pulito di qualità, contro il rigassificatore, contro la discarica, per le bonifiche, per la diversificazione economica, per l’ospedale. Ecco dunque invece ogni lotta separata e quasi in contrapposizione alle altre. Risultato: è arrivato il rigassificatore, la mega discarica, le bonifiche non sono partite, la diversificazione langue, l’ospedale non è certo migliorato e per le acciaierie l’unica cosa certa, ad oggi, sembrano, nella migliore della ipotesi, i 1000 esuberi eccedenti del progetto Jindal.
Dunque, l’Afo è venuto giù: per rialzare Piombino occorre imparare la lezione dagli errori commessi in questi anni. Se la demolizione dell’Afo, un fatto in sé sintomo di incultura e di sconfitta, ci spingerà a imparare e cambiare rotta, l’Afo non sarà venuto giù invano. Fabbrica e città insieme, dal basso, ce la possiamo fare. Forza!
Paolo Francini
Paolo Gianardi